AFRICA A MENSA
Diciamo che non ci può essere commozione, di fronte alla povertà. Se sei un maestro, e vuoi fare bene il tuo mestiere, impari a dosare gli sguardi, a controllare le parole. Come un chirurgo di fronte ad un fegato spappolato, mantieni il controllo e porti a termine l’operazione. Poi, a lavoro finito, se ne riparlerà…
Il mio fegato spappolato è una bambina di seconda, che dell’Africa ha ancora le treccine, gli accenti sballati e un tono di voce esagerato. Oggi vengo a sapere che ha passato le ultime settimane senza corrente elettrica, perché i genitori si sono separati e la madre non ha di che vivere. Di fronte alla sua storia è difficile non affogare nell’ottocento del romanzo e il romanzo dell’ottocento non è uno scenario entusiasmante…
E così,sempre oggi, mi viene in aiuto una delle signore della mensa.
Succede che la bambina, al termine del pranzo, si lancia addosso alla donna in un abbraccio vero, senza ambiguità.
Succede che poi spiega, davanti a tutti: voglio bene a lei. Mi ha comprato i vestiti. La signora mi guarda preoccupata, pensa che la bambina abbia parlato troppo. Avrà svelato i segreti di una doppia vita o un solo episodio, un momento di solidarietà istintiva? Chissà.
Io me la cavo con una battuta, ma poi mi torna in mente quel detto africano che tutti ripetono: per educare un bambino serve un villaggio.
Il villaggio oggi è qui, l’Africa ha preso l’aereo ed ha seguito la bambina fin dentro la Pianura Padana. Una inserviente ha messo da parte la propria precarietà ed ha agito perché non ci sono problemi d’altri, nel villaggio. In questo pezzo d’Africa mi inserisco volentieri anch’io e provo a ripassare le formule magiche che tengono lontana la paura dagli occhi dei bambini.